martedì 29 ottobre 2013

A tu per tu con... Federico Pagliai, autore di "Il bosco di nessuno di voi"

Bentornati nella mia Foresta Incantata!
Oggi torno con un'intervista, e questa volta è ospite della mia casetta in mezzo al bosco l'autore de "Il bosco di nessuno di voi", libro che vi ho recensito proprio qualche settimana fa (per chi si fosse perso la recensione, potete trovarla cliccando qui). Vogliamo cominciare?
1) Ciao Federico, e benvenuto sotto le fronde della mia Foresta Incantata! Presentati ai lettori del blog e raccontaci: chi è Federico Pagliai? 
Uno che si dipinge la vita scrivendo… ma a parte questo, ti dico che sono nato nell’aprile del 1966 a La Lima, da famiglia operaia. Ho trascorso tutta l’infanzia, adolescenza, e oltre, in questo paese atipico, perché, pur essendo incastonato in un contesto estremamente dominato dagli elementi naturali, (pietra, legno, acqua, terra) era un borgo nato, cresciuto e poi morto attorno a una delle realtà industriali più importanti del comprensorio, ovvero la Cartiera Cini. In età adulta sono babbo di una ragazzina di 18 anni, infermiere 118 a bordo di ambulanza ed elisoccorso e volontario del Corpo Nazionale Soccorso Alpino Speleologico.
 
2) Dal tuo ultimo libro “Il bosco di nessuno di voi” trapela il tuo grande amore per la Natura. Com’è nato questo tuo rapporto con Madre Terra?
Credo che i semi di questo legame derivino da un contrasto, una delusione e un risveglio. Il contrasto fa riferimento a quanto ho scritto a proposito di me: La Lima, paese natale, culla e calco, era un luogo dominato dalle tute blu, camion, sbuffi di vapore, suoni di sirena, rumori di macchine. In un posto del genere, accerchiato da cime e boschi, la Natura è contrasto, richiamo, lontananza. Va cercata. Ho sempre cercato le cose naturali laddove sono meno presenti: è come un richiamo istintivo, come un qualcosa che mi veniva suggerito dal dentro. 
Nella non naturalità de La Lima, durante l’infanzia, ho sempre posto attenzione alle piccole cose naturali che quel mondo artificioso offriva: i fossi con le rane o i broccioli, i nidi di rondine sotto le grondaie, gesti di vecchi che raccoglievano legna nel fiume dopo una piena… La delusione, dicevo: il paese si reggeva su un’utopia industriale a tempo. Il sogno che una tale realtà potesse durare negli anni si infranse nel 1977 quando gli impresari, fatti due conti, chiusero la Cartiera in tre mesi. Tutto il paese era stranito, la gente cominciò ad andarsene, amici di infanzia che venivano trascinati via, negozi chiusi, abbandono e malinconie dappertutto. Questa era la tanto reclamizzata certezza industriale. Un’utopia. E la Natura circostante? Quella fatta di boschi e campi da lavorare? Beh, quella era sempre lì, pronta ad offrirsi. Ma nessuno (o quasi…) la sapeva più trattare: la calamita della Cartiera aveva nei decenni passati attirato tutta una manovalanza che conosceva (salvo poi smarrirli) le arti e mestieri naturali per cui, in molti, si ritrovarono nell’incapacità di riannodare i fili con quel passato manuale e naturale che rappresentavano le fondamenta nascoste della storia umana di questi luoghi. Il risveglio: grazie alla mia indomabile curiosità, richiamo istintivo per tutto quanto è naturale e ad alcuni vecchi che erano soliti portarmi con loro per poderi, crinali e boschi, ho conosciuto, apprezzato e poi difeso una realtà che se n’era altamente fregata delle sorti della Cartiera. Erano boscaioli, contadini, scalpellini, pastori che con la loro economia di sussistenza, amavano e custodivano quotidianamente un territorio, ne conoscevano segni e sintomi. Vivevano sereni e con un senso della misura invidiabile a contatto con le stagioni: ognuna di esse metteva nelle loro mani un arnese diverso, ogni arnese era un mestiere. Loro sono rimasti. L’industrializzazione ha lasciato cenere e case vuote.
 
3) E ora raccontaci un po’ com’è nato “Il bosco di nessuno di voi”: come è scaturita l’idea di questo libro dalla tua penna? Cosa ti ha spinto ad intitolarlo così?
Penso che la scrittura non si scelga. E’ lei a scegliere noi. Con questo voglio dire che non c’è stata premeditazione nello scrivere questo ultimo libro. La penna ha “pescato” questo Federico e poi l’ha rovesciato su un foglio bianco. Sicuramente, sentivo il bisogno di una scrittura più introspettiva, profonda, pur restando nel solco della semplicità. Qualcosa che arrivasse in egual misura a bimbi e adulti (tant’è che nella prima bozza il sottotitolo era “Racconti per bambini cresciuti troppo in fretta e per adulti che vorrebbero tornare bambini”). Pur non discostandomi dall’argomento montagna, sentivo la necessità di parlare di sentimenti. Ne siamo tutti diseducati e, senza alcuna presunzione, volevo dire la mia contestualizzandoli in una forma letteraria apparentemente “banale” ma di una semplicità e sottigliezza assoluta come lo sono le favole. L’idea, poi, è stata stimolata dalle mie mattutine camminate nei boschi: i miei libri nascono là dentro, un colpo d’occhio, una suggestione, un lapis, un block notes e il pensiero-seme è fermato…Poi, quando meno uno se l’aspetta, ecco che in qualcosa germoglia. Mi chiedevi del titolo: pura provocazione che sfiora la presunzione e l’antipatia. L’ho voluto così perché accenna al percorso esperienziale di un uomo, di un singolo uomo che si addentra nel bosco-vita. L’idea, sottintesa e mai esplicitamente espressa, era quella di indurre il lettore, una volta terminato il testo, a sospettare che quel titolo si trasformasse nel “ Bosco di ognuno di noi”. Chissà se ci sono riuscito…
 
4) Qual è il racconto del tuo ultimo libro a cui sei più affezionato e perché? 
Due su tutti: Il ghiro a due code e il gatto che morì di randagismo per bramosia di libertà. Il perché? Beh, uno coinvolge la mia affettività. Una storia di amore molto recente che mi è rimasta stampata dentro, finita molto male. Ne dovevo parlare, scorporare un peso, confessare per condividere. Meno male che ho trovato il ghiro che mi ha ascoltato e raccontato (dove comincio io e dove comincia lui?), che ha condiviso un vissuto simile. Per quanto riguarda il gatto, esso è il racconto autobiografico: un nastro riavvolto, un presente di uomo che cerca-litiga-cerca l’amore, il presagio di una fine.
5) Nel tuo libro parli di “Igienite”, quella strana malattia che, per citare le tue parole, “non uccide, non fa venire la febbre e non si vede nemmeno ai raggi X, ma forse solo Dio sa di quante tradizioni, quanti antichi mestieri, cibi brutti a vedersi ma impareggiabilmente buoni e sani ha causato l’estinzione”. E’ una malattia che bene o male affligge un po’ tutte le persone che abitano in città: che consiglio ti sentiresti di dare a chi soffre di questa malattia? 
Più che consiglio (quella è gente che non accetta consigli) un auspicio: quello di trovarsi, per una qualche ragione, da solo, in una macchia, senza niente se non un po’ di acqua, una cordicella, un coltello… L’arte di arrangiarsi per sopravvivere metterebbe al buio ogni sintomo di igienite: hai fame? Bacche, radici di genziana, lumache… hai sete? Camminare per cercare una valida polla (con buona pace se non ha nei pressi una targhetta di “acqua controllata biologicamente”), hai freddo? Mezzo metro di foglie di faggio sono già un buon lenzuolo. Estremizzando di meno, basterebbe far soggiornare questi malati in luoghi naturali, abitati da gente naturale, dai volti rubizzi, amanti della compagnia, del lavoro manuale e della semplicità. La vita si apprezza sul contrasto.
 
6) Parlaci ora del tuo libro precedente, “Come un filo che pende” (che tra l’altro sono ansiosa di leggere).
Libro sovversivo. Non posso definirlo diversamente un testo che va contro alle tendenze che ci vogliono far vivere in un mondo fatto di supersupersupermercati e discariche. L’inno di una vita diversa, forse utopica ma non per questo poco suggestiva perché sospesa tra leggenda e realtà, raccontata da un uomo che fino alla veneranda età di 94 anni, ha deciso di vivere da solo in un podere a 1100 mt slm, lassù dove la neve resta per sette mesi l’anno e la terra è magra, ripida e poco fruttifera. Libro di amicizia: tra me e Gildo, il protagonista. Il nonno che non ho mai avuto durante l’infanzia, il filo sospeso sul mio percorso di vita. Mi aspettava. Ha colmato un’assenza. Libro come viaggio nel tempo, nella mutevolezza di alcuni aspetti: l’infanzia, il mondo del lavoro, la famiglia, la guerra, le donne, il rapporto uomo terra ambiente. Un secolo di vita raccontato dal “pianoterra”, dalla visuale di un uomo che non si capiva quanto appartenesse al mondo naturale e quanto alla contemporanea e attuale umanità.
 
 7) Cosa hai provato nello scrivere la storia di Gildo, che narra il rapporto di un anziano contadino con la sua terra? Cosa hai provato nel raccogliere e custodire le sue testimonianze?  
I semi della storia di Gildo erano già dentro di me, dall’infanzia e poi su su. Gildo gli ha dato forma, espressione e contesto. A rinforzo di ciò è arrivata la stima, il rispetto, la benevola suggestione che quest’uomo infondeva, la sua incombenza di raccontare che si sposava con la mia propensione all’ascolto. Il libro( non c’era premeditazione di farlo) è un effetto collaterale di tutto ciò. Nel raccogliere e custodire le testimonianze di quest’uomo ho provato una moltitudine di sensazioni: orgoglio perché mi sentivo riconosciuto come colui che aveva la possibilità di imbalsamare e tramandare una memoria di un uomo, anzi di una cultura intera, imbarazzo perché ero visto come lo scrittore, emozione perché si venne a creare un’ incredibile alchimia, dispiacere perché sentivo che quello era il testamento, canto di cigno di un uomo che sapeva di essere al capolinea. Infine, serenità. Perché Gildo, uomo di neve, era soprattutto serenità, umana quiete.
 
8) Racchiudi in poche righe (servendoti anche di una citazione se preferisci) la tua filosofia di vita. 
Azz..che domandona…. Tolleranza, rispetto, solitudini positive ed essenzialità. 
9) Se tu fossi un albero, quale saresti? 
Per identificazione con le “mie Montagne” sarebbe semplice e scontato risponderti con “un castagno”. Il mio albero preferito è la betulla, ma dovendomi somigliare a qualcos’altro preferisco dirti un ciliegio selvatico, uno di quelli che, improvvisamente, appaiono nel bel mezzo di un bosco. E’ albero precoce nel risveglio a primavera, così come lo sono io nello svegliarmi all’alba. Colorato perché non c’è mese che non acquisisca una livrea diversa. Ha il legno rosso dei timidi, l’orgoglio dei soli, la passione di chi sa voler bene testimoniata dalle foglie rosso sangue in autunno. Sembra un colosso ma, ogni tanto, perde un ramo.
 
10) E adesso, un’ultima curiosità prima di chiudere: la tua stagione preferita? 
Odio l’estate: noiosa nel suo fermo-meteo, troppo ridanciana e falsa per essere vera. Mi piacciono primavera ed autunno per la loro variabilità, per quella loro insicurezza di lasciare inverno ed estate. Ecco, dovendoti dare una risposta secca, ti dico “inverno”: vorrei sempre avere neve intorno. Spenge ed acquieta la mia indole primaverile, la neve. Speriamo nevichi, presto.
Bene Federico, l’intervista è finita. Grazie per aver accettato di essere mio ospite e tanti auguri per il tuo futuro e i tuoi libri!

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