Buona domenica a tutte voi, creature del bosco!
Oggi è la prima domenica del mese, il giorno dedicato alle fiabe qui nella mia Foresta Incantata.
Il mio caro amico Menestrello torna a narrarvi una delle sue storie, questa volta tratta dal libro di fiabe dei fratelli Grimm. Mettetevi comodi dunque, e leggete insieme a lui questa storia.
C'era una volta una povera vedova, che viveva in una modesta casetta
con le sue due bambine, Biancarosa e Rosella, così chiamate perché
erano simili ai boccioli rossi e bianchi dei rosai che crescevano
davanti a casa sua. Erano due bimbe buone, laboriose e gentili. Le due bambine si volevano molto bene, dicevano che
non si sarebbero mai separate e che avrebbero sempre diviso
fraternamente ogni cosa. Spesso si addentravano nella foresta a
cercare fragole e mirtilli, ma gli animali feroci non facevano loro
alcun male. Le lepri venivano a mangiare le foglie di cavolo che le
bimbe porgevano loro, i caprioli pascolavano senza timori, le capre
saltellavano intorno giocando, e gli uccellini rimanevano a gorgheggiare
sui cespugli senza fuggire al loro avvicinarsi. Non capitava loro mai
niente di male e, se indugiavano nella foresta e la notte le
sorprendeva, si sdraiavano sul muschio e dormivano tranquille fino alla
mattina dopo. La mamma non aveva alcun timore, pur sapendole sole nel
bosco.
Una volta, dopo aver trascorso la notte nella foresta, quando
l’alba le svegliò videro una bella fanciulla vestita di un bianco
abbagliante che stava seduta vicino al loro giaciglio. Ella s’alzò
guardandole con amore e, senza dir nulla, rientrò nella foresta. Quando
le bimbe si guardarono intorno, si accorsero che il luogo dove avevano
dormito era sull’orlo di un precipizio, nel quale sarebbero certo
precipitate se nel buio avessero fatto due passi di più. La mamma disse
che l’apparizione che avevano veduta era, senza dubbio, uno degli angeli
che proteggono i bambini buoni da ogni pericolo.
Biancarosa e Rosella
tenevano la loro casetta così pulita che era un vero piacere entrarvi.
Ogni mattina, nell’estate, Rosella metteva prima in ordine la casa e poi
coglieva un mazzolino di fiori per la mamma, e ci metteva sempre un
bocciolo bianco e uno rosso che prendeva da ciascuno dei due rosai. Ogni
mattina, nell’inverno, Biancarosa accendeva il fuoco e vi poneva sopra,
piena d’acqua, la caffettiera, che, benché fosse di rame, splendeva
come l’oro tanto era ben lucidata. La sera, quando cadevano i fiocchi di
neve, la mamma diceva: "Biancarosa, và a chiudere la porta con il
catenaccio" e poi si sedevano intorno al camino e la mamma si metteva
gli occhiali per leggere un grosso libro a voce alta, mentre le bambine
filavano. Accanto a loro stava accucciato un agnellino domestico e
dietro, appollaiato sopra una pertica, c’era un piccioncino bianco, che
dormiva con la testa sotto l’ala.
Una sera, mentre sedevano così pacificamente, si sentì un colpo alla
porta, come se qualcuno volesse entrare. "La madre ordinò loro di aprire, pensando che fosse qualche viandante bisognoso di asilo, invece fu un orso grosso e grasso a fare
capolino dalla porta. Rosella cacciò un grido e tornò indietro di corsa, l’agnellino
belò, il piccione svolazzò sulla pertica e Biancarosa si nascose dietro
il letto della mamma. L’orso, però, si mise a parlare e disse: "Non
abbiate paura, non vi voglio fare del male, ma sono mezzo congelato e
vorrei scaldarmi un poco."
"Povero orso!" esclamò la mamma, "vieni
dentro e sdraiati davanti al fuoco, ma stà attento a non bruciarti il
pelo" e poi continuò: "Venite qui, Rosella e Biancarosa, non abbiate
timore, l’orso non vi farà del male: vedete, le sue intenzioni sono
buone."
Così esse si avvicinarono e pian piano anche l’agnello e il
piccione dominarono la loro paura e fecero buona accoglienza al rude
visitatore.
L’orso si distese davanti al fuoco e
fremeva dalla contentezza; a poco a poco le bambine presero tanta
confidenza con lui da osare fargli degli scherzi: gli tiravano il pelo,
gli mettevano i piedi sulla schiena, lo facevano rotolare avanti e
indietro e arrivarono perfino a picchiarlo col battipanni, ridendo
quando lui brontolava, ma l’orso sopportava serenamente tutti questi giochi.
Quando venne l’ora di andare a letto e le bimbe si coricarono, e l'ospite si sistemò vicino al camino per scaldarsi.
La mattina seguene l’orso se ne trotterellò via sopra la
neve e ben presto prese l’abitudine di tornare alla capanna ogni sera
alla stessa ora. Si sdraiava davanti al fuoco e lasciava che le bambine
giocassero con lui finché volevano: a poco a poco esse si abituarono
talmente alla sua presenza che non mettevano il catenaccio alla porta
finché non era arrivato. Ma appena tornò la primavera e tutto era verde
nella campagna, una mattina l’orso disse a Biancarosa che doveva
lasciarla e non sarebbe tornato per tutta l’estate.
"Dove vai, allora,
caro orso?" chiese Biancarosa.
"Sono costretto a stare nella foresta per
custodire i miei tesori dai nani cattivi. Durante l’inverno essi se ne stanno rintanati nelle loro
grotte e non possono uscire, ma ora che il sole ha riscaldato la terra, i nani scavano lunghe gallerie e rubano tutto quello
che trovano. Ciò che è passato nelle loro mani e che essi nascondono
nelle loro grotte non si può riavere facilmente."
Biancarosa era molto triste per la partenza dell’orso, e gli aprì la
porta così malvolentieri, che, quand’esso sgattaiolò dalla fessura,
lasciò sulla maniglia un pezzetto di pelliccia: e nel buco prodottosi
nel suo mantello parve a Biancarosa di intravedere un luccichio d’oro;
ma non ne fu sicura. L’orso, pertanto, se n’andò in fretta, e fu presto
nascosto dagli alberi.
Poco tempo dopo, la mamma mandò le bimbe nel
bosco a raccogliere legna e, mentre erano lì s’imbatterono in un albero caduto attraverso
al viottolo. Videro qualcosa tra l’erba che andava su e giù e non
capirono dapprima che fosse: ma quando si furono avvicinate, videro un
nano dalla faccia vecchia e grinzosa, e dalla candida barba lunga un
metro. La punta di questa barba era incastrata in una fessura del tronco
e l’omino saltava qua e là come un cane legato a catena, non sapendo
come fare a liberarsi. Guardò le bambine con gli occhi fiammeggianti ed
esclamò: "Che cosa fate lì senza muovervi? Non ve ne andrete senza
aiutarmi, vero?"
"Che cosa avete fatto, nonnino?" domandò Rosella.
"Quanto sei sciocca e curiosa" esclamò quello, "volevo spaccare l’albero
per fare legna per la mia cucina. Avevo messo il cuneo e tutto
procedeva bene, quando esso è saltato via a un tratto e la spaccatura si
è richiusa così presto che non ho fatto in tempo a tirare indietro la
mia bella barba, e ora è presa lì dentro e non posso andarmene. Ecco!
Non ridete, visi di cartapesta? Siete dunque rimaste incantate?"
Le
bambine riunirono i loro sforzi per tirare fuori la barba del nano, ma
non vi riuscirono.
"Corro a cercare aiuto" gridò Rosella alla fine.
"Sei
un cervello sciocco e una testa bacata" gridò il nano "Che bisogno c’è
di chiamare altra gente? Voi due siete anche di troppo per me; non
potete trovare altro rimedio?"
"Non vi spazientite," replicò Biancarosa
"ho pensato a qualcosa" e, tirando fuori dalla tasca le sue forbicine,
tagliò la punta della barba.
Appena il nano si sentì libero, afferrò il suo sacco, che era
nascosto fra le radici dell’albero ed era pieno d’oro. Ma si guardò bene
dal mostrarsi riconoscente: si gettò sulle spalle la bisaccia e se ne
andò con aria corrucciata, brontolando e gridando: "Stupide, tagliare un
pezzo della mia barba!"
Un po’ di tempo dopo, Biancarosa e Rosella se
n’andarono a pescare; quando si avvicinarono allo stagno, videro
qualcosa che sembrava una grossa cavalletta e che saltellava sulla riva
come se stesse per balzare nell’acqua. Corsero a vedere e riconobbero il
nano.
"Che cosa state facendo?" domandò Rosella. "Cadrete nell’acqua!"
"Non sono tanto scemo," rispose il nano "ma non vedete che questo pesce
mi ci tira dentro!"
Il nano stava pescando e il vento aveva imbrogliato
la sua barba col filo della lenza in modo che, quando un grosso pesce
aveva abboccato all’amo, le forze del piccolo essere non erano più state
sufficienti a tirarlo su e il pesce era sul punto di avere la meglio
nella lotta. Il nano si aggrappava ai salici e ai cespugli che
crescevano sulla riva, ma anche questo non serviva. Per fortuna le
due fanciulle arrivarono in tempo e cercarono di liberare la barba del
nano dal filo della lenza; ma essa si era talmente attorcigliata che non
fu più possibile sciogliere quell’intrico. Biancarosa tirò fuori le
forbici una volta ancora e tagliò un altro pezzo di barba. Quando il
nano se ne accorse, montò su tutte le furie ed esclamò: "Sciocche! E’
questa la maniera di sfigurarmi? Non vi bastava tagliarmela una volta,
ora dovete anche togliermene la parte migliore? Non avrò più il coraggio
di farmi vedere dalla mia gente. Sarebbe stato meglio che vi fossero
andate via le suole dalle scarpe prima di arrivare qui!" Ciò dicendo,
sollevò un sacco di perle che stava fra i cespugli e, senza aggiungere
parola, scivolò via e sparì dietro una pietra.
Non molto tempo dopo quest’avventura, la mamma di Rosella e
Biancarosa ebbe bisogno di filo, aghi, spilli, merletti e nastri, e
mandò le figliole a comprarli nella città più vicina. La strada passava
per una zona dove numerosi massi erano disseminati qua e là, ed esse
scorsero, proprio al disopra delle loro teste, un grande uccello che
volava a spirale abbassandosi via via finché, a un tratto, piombò dietro
a uno di quei massi. Udirono subito un grido lacerante e, correndo,
videro con orrore che l’aquila aveva afferrato il loro vecchio
conoscente, il nano, e cercava di portarlo via. Le bimbe compassionevoli
lo afferrarono a loro volta e lo tennero forte finché l’uccello
rinunciò a lottare e se ne volò via. Però, appena il nano si riebbe
dalla paura, esclamò con la sua vocetta acuta: "Non potevate tenermi con
più garbo? Avete afferrato la mia giacca marrone in modo tale che è
tutta strappata e piena di buchi. Ficcanaso e pettegole che non siete
altro!" Con queste parole si caricò sulle spalle un sacco pieno di
pietre preziose e scivolò nella sua grotta fra le rocce. Le ragazze
ormai erano abituate all’ingratitudine del nano e seguitarono la loro
strada fino alla città, dove fecero le loro compere. Tornando a casa
ripassarono da quella località e, senza accorgersene, attraversarono una
radura sulla quale il nano, pensando d’essere solo, aveva sparso le
pietre preziose del suo sacco. Il sole brillava e le pietre luccicavano
rifrangendo i suoi raggi: c’era una tale varietà di colori che le
bambine si fermarono ad ammirarli stupite. "Che cosa state a fare lì a
bocca aperta?" domandò il nano, mentre il viso gli diventava paonazzo
per la rabbia. Continuava a gridare improperi contro le povere
fanciulle, quando si udì un ringhio e un grande orso nero venne fuori
pesantemente dalla foresta. Il nano diede un balzo, terrorizzato, ma non
fece in tempo a rientrare nel suo antro prima che l'orso lo
raggiungesse. Allora gridò:
"Risparmiami, caro signor orso, ti darò
tutti i miei tesori, e anche queste pietre preziose. Concedimi la vita:
che puoi temere da un piccolo essere come me? Non mi sentiresti nemmeno
fra le tue zanne. Qui ci sono due bambine cattive, due teneri
bocconcini, grasse come quaglie: mangia loro!"
L’orso però, senza darsi la pena di parlare, dette una zampata a quel
nano senza cuore, che non si mosse più. Le bambine stavano per fuggire,
ma l’orso le chiamò: "Biancarosa, Rosella, non temete, aspettatemi che
vi accompagno!" Esse riconobbero allora la voce del loro amico e si
fermarono rassicurate. Ma quando l’orso arrivò loro vicino, il suo
mantello gli cadde di dosso e apparve uno splendido giovanetto, vestito
tutto d'oro.
"Sono il figlio di un re," disse, "ed ero stregato da quel
nano cattivo che aveva rubato tutti i miei tesori, condannandomi a
errare in questa foresta sotto forma di orso finché la sua morte non mi
avesse liberato. Ora ha finalmente ricevuto il castigo che si meritava."
Così se ne tornarono alla casetta: Biancarosa sposò il bel principe e
Rosella il fratello di lui, e si divisero l’immenso tesoro che il nano
aveva raccolto. La vecchia madre visse ancora felicemente per molti anni
con le sue figliole; i rosai che stavano davanti alla casetta furono
trapiantati davanti al palazzo, e ogni anno diedero delle bellissime
rose rosse e delle rose bianche ancora più belle.
Che ne pensate? La conoscevate?
Adoro questa rubrica! Brava Mirial!
RispondiEliminaMi è piaciuta molto questa storia, non la conoscevo, pur avendone lette molte dei fratelli Grimm :)
Grazie per averla condivisa, a presto :)