Mi ero ripromessa di portare avanti il blog come ho fatto negli ultimi due mesi, ma ovviamente i buoni propositi vanno quasi sempre a farsi friggere quando subentrano gli impegni scolastici, lavorativi e di altro genere...
Sono spiacente di non essere riuscita ad essere presente in questo spazio nelle ultime due settimane, inoltre mi toccherà mettere da parte questa rubrica ogni tanto, prima di tutto perchè non ho il tempo materiale di scriverne i post e poi di recente sono fossilizzata sulle solite letture, che ho lì sul comodino in attesa di essere concluse. A breve riceverò una risposta importante che potrebbe cambiare qualcosa nella mia routine, ma finchè non ci sarà niente di ufficiale non posso dirvi niente, pertanto mi limito ad avvisarvi che se mancherò sul blog nei prossimi giorni/settimane/mesi sarà per cause di forza maggiore!
E adesso... bando alle ciance e veniamo al punto di questa rubrica, introducendone prima gli ingredienti =P
- il libro che stai leggendo
- una pagina aperta a caso
- copiane un pezzo evitando accuratamente gli spoiler
- rivelare l'autore e il titolo del libro
Il libro che ho deciso di presentarvi questa settimana è, come vi suggerisce il titolo del post, "Il lupo e il filosofo" di Mark Rowlands:
Quando Brenin era un giovane lupo, il suo gioco preferito consisteva nel rubare i cuscini del divano o della poltrona. Se io mi trovavo in un'altra stanza, se magari stavo lavorando nello studio, Brenin compariva sulla soglia con il cuscino in bocca, e, appena capiva che l'avevo visto, si lanciava in una folle corsa per tutta la casa, in soggiorno, in cucina e infine in giardino, sempre con me alle calcagna. Era un gioco d'inseguimento e poteva continuare per un bel po' . Nel corso dell'addestramento gli avevo già insegnato a lasciare cadere gli oggetti - era una delle funzioni del comando "Out!" -, per cui avrei potuto ordinargli di mollare il cuscino in qualunque momento. Ma non ne avevo il cuore e comunque il gioco era troppo divertente. E così Brenin zigzagava sfrecciando per tutto il giardino, con le orecchie appiattite, la coda bassa e gli occhi scintillanti di eccitazione, mentre io gli correvo dietro, chiamandolo invano. Fino all'età di tre mesi circa, Brenin era abbastanza facile da raggiungere e acchiappare, per cui facevo solo finta che fosse troppo veloce per me. Ma la finzione si trasformò gradualmente in realtà. Non passò molto tempo prima che Brenin cominciasse a esibirsi in piccole finte: accennava ad andare in una direzione per poi invece scattare nell'altra. Quando capii il trucco, lui passò alle doppie finte. COn il tempo il gioco diventò un veloce, confuso susseguirsi di finte, doppie finte e triple finte: finte annidate dentro altre finte. Sono sicuro che, quando era in forma e nel pieno del gioco, Brenin non avesse idea di cosa avrebbe fatto l'istante successivo. E di conseguenza non ne avevo la più pallida idea neppure io. Naturalmente questo allenamento al dribbling ebe grandi effetti sulle mie abilità rugbistiche. Avevo sempre basato il mio gioco sull'idea di travolgere l'avversario e passarci sopra piuttosto che aggirarlo. La cosa funzionava bene in Gran Bretagna, ma non altrettanto negli Usa, dove in genere la popolazione è molto più grande e grossa e cresce giocando a football, sport in cui il placcaggio è feroce. Gli americani, però, si lasciano confondere molto più facilmente e, con tutte quelle lezioni di Brenin, diventai un asso del dribbling negli Stati Uniti sudorientali.
Il fatto che non riuscissi più a prenderlo suscitò in Brenin una certa sfrontatezza, che lui espresse in una prima variante del gioco. Dopo avermi adeguatamente sfinito, mi si piazzava davanti e lasciava cadere il cuscino a metà strada tra di noi. "Dai!" era il messaggio. "Prendilo!" Appena mi chinavo per afferrarlo, Brenin spiccava un balzo, azzannava il cuscino e l'inseguimento ricominciava da capo. Per quanto fossi veloce nel chinarmi per afferrare il cuscino, Brenin era sempre un po' più veloce di me. La sua era un'abilità che poteva essere utilmente impiegata per altri scopi: una volta si esibì nello stesso gioco con un pollo appena cotto che aveva rubato in cucina durante una mia momentanea distrazione. Avrei potuto ordinargli di posarlo, naturalmente. Ma a quale scopo? Non avevo una gran voglia di quel pollo dopo che Brenin se l'era tenuto in bocca, e così passammo a giocare all'inseguimento.
Alcuni istruttori professionisti guarderebbero il nostro gioco con orrore. Lo so perchè me l'hanno detto. L'obiezione che muovevano era duplice. In primo luogo, era probabile che il gioco, per la sua stessa natura, rendesse Brenin più eccitabile, caratteristica che è meglio non incoraggiare in un lupo. In secondo luogo, i miei costanti fallimenti nel raggiungerlo e bloccarlo potevano indurlo a concludere di essermi fisicamente superiore e, di conseguenza, spingerlo a sfidarmi per lo status di alfa. Forse erano timori legittimi, ma con Brenin non si concretizzarono mai. E questo, ritengo, perchè i giochi si svolgevano sempre secondo un rituale ben definito, che aveva un inizio e una fine molto precisi. Se ero in soggiorno, non permettevo mai a Brenin di prendere i cuscini. I suoi tentativi venivano repressi da un deciso "Out!". Questo gli comunicava che il gioco era qualcosa che poteva essere fatto solo in determinati momenti. E il gioco aveva sempre una conclusione chiara. Io dicevo: "Ok, adesso basta" e gli ordinavo di portarmi il cuscino. A quel punto rientravamo in casa e gli davo una piccola prelibatezza, cosa che rafforzava il concetto di fine del gioco e, allo stesso tempo, gli faceva associare la fine a qualcosa si buono.
Tutto questo funzionò benissimo per un certo tempo. Ma, intorno ai nove mesi, Brenin decise di portare il gioco a un livello più avanzato. Una mattina, mentre stavo scrivendo nello studio, sentii una successione di tonfi rumorosi provenire dal soggiorno. Non contento di portare in giardino i cuscini, Brenin aveva deciso che poteva essere una buona idea portare fuori anche la poltrona. E i tonfi erano provocati dalla poltrona che cozzava contro il telaio della porta mentre Brenin cercava di farla passare. Fu allora che mi resi conto che si rendeva necessario un approccio più radicale al problema del suo intrattenimento, un approccio basato sulla premessa che, tutto considerato, sarebbe stato meglio per tutti e due se Brenin fosse stato costantemente esausto. E così cominciammo a correre insieme.
(pagg.79-81)
Nessun commento:
Posta un commento